Bruno Corà: Bernini ebbe il Papa, per i suoi artisti d’oggi l’Italia è avara

Il critico d’arte confronta le sculture di Staccioli esposte a Caracalla a Roma e quelle di Mattiacci al Belvedere a Firenze

Bruno Corà: Bernini ebbe il Papa, per i suoi artisti d’oggi l’Italia è avara
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14 Settembre 2018 - 10.15


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Secoli fa gli artisti italiani avevano i Dogi, i Medici, gli Sforza e i papi pronti a finanziare copiosamente le loro imprese artistiche per sfoggiare potere e munificenza. Oggi gli artisti nordamericani hanno sostegni economici paragonabili, non gli eredi di Michelangelo e Bernini. Lo constata Bruno Corà, profondo conoscitore dell’arte italiana del secondo dopoguerra, presidente della Fondazione Burri a Città di Castello, discutendo di una coppia di mostre ricche di suggestioni e rimandi tra antico e moderno: le imponenti rovine romane delle Terme di Caracalla ospitano fino a 4 novembre (la Soprintendenza speciale di Roma ha prorogato la chiusura fissata dapprima al 30 settembre) le sculture di Mauro Staccioli nella retrospettiva “Sensibile ambientale”, curata da Albero Fiz, programmata quando l’autore era in vita e diventata postuma per sua la scomparsa il primo gennaio scorso a 81 anni. Parallelamente al Forte Belvedere di Firenze Eliseo Mattiacci (Pesaro, 1940) ha fino al 14 ottobre la vasta mostra intitolata “Gong” in cui effettivamente espone un suo gong accanto ad altre grandi sculture sui bastioni mentre l’edificio contempla disegni, sculture più piccole e un’installazione. Il curatore è Sergio Risaliti insieme allo Studio Eliseo Mattiacci.

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Un filo lega le due mostre nel confronto con l’antico? “Le due iniziative a mio avviso si mettono su una stessa lunghezza d’onda nel rapporto tra uno scultore contemporaneo con spazi storici qualificati, molto noti. C’è sempre un misurare il linguaggio contemporaneo con un’altra concezione artistica: un’architettura civile romana a Caracalla, un’architettura difensiva o nobiliare al Forte”. Corà trova peraltro “curioso” come i due artisti si siano scambiati territorio. “Mattiacci ha avuto un suo teatro a Roma dove venne come battezzato alla Galleria della Tartaruga nel ’67-68, quando nasceva il versante romano dell’Arte Povera, con Kounellis e Pino Pascali che erano suoi amici. Al Forte alcune installazioni, come quella sul mito del pellerossa all’interno dell’edificio, mi pare tornino ad avere il loro splendore. In altri casi la scala tra la scultura e gli spazi esterni poteva essere affrontata anche con opere di dimensioni maggiori, che esistono: una è a Prato, una a Trieste …” Il rischio che la veduta di Firenze schiacci le sculture esiste sempre e anche in questo caso, quindi? “Direi che non si vedono sempre: Mattiacci ha anche lavorato in spazi chiusi e all’interno dell’edificio risulta più forte”.

Sull’esposizione a Caracalla lo studioso commenta: “Staccioli nasce a Volterra con mostre sul rapporto cittadino. Va a finire che si confronta con l’architettura romana e non ne soffre, non foss’altro perché Caracalla obbliga a un rapporto ravvicinato, gli ambienti sono più aderenti. Anche tra il mattone antico romano e la sua scultura in acciaio corten si riscontra una simpatia cromatica, si inserisce bene. Infatti quando Staccioli fece una mostra antologica ai Mercati di Traiano sempre a Roma si inserì benissimo”.

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“Negli Stati Uniti mezzi enormi agli artisti, i nostri devono arrampicarsi sugli specchi”

Un consuntivo, almeno parziale, è possibile, Corà conosce bene l’opera dei due autori ma rinvia il confronto con gli Stati Uniti: “Questi due artisti hanno una scala sempre contenuta, mentre negli stessi anni i minimalisti americani, da Richard Serra a Robert Morris, da Sol LeWitt a Donald Judd, avevano maggiori possibilità di mezzi, potevano realizzare opere enormi. Per non parlare della Land Art. Negli Stati Uniti numerose Fondazioni hanno consentito a quegli artisti di creare tutto quello che volevano perché avevano i mezzi”. In Italia invece? “I nostri artisti hanno dovuto arrampicarsi sugli specchi – risponde – hanno dovuto sacrificare le ambizioni alle misure a disposizione. Resta un dato di fondo: la nostra arte europea e italiana rimane in stretta relazione con lo spazio europeo, mentre un proprietario terriero texano può offrire 500mila ettari a un artista americano, non ha limiti di spazio né finanziari. E per la libertà di un artista questo incide. Un esempio lampante è Bruce Nauman”.

L’Italia è più limitata. “Ora alcune Fondazioni danno spazio alla progettazione artistica – riconosce il presidente della Fondazione Burri – però i nostri artisti per decenni non hanno avuto nulla. Penso ad Alberto Burri: fece da solo tutto. Anche il suo Cretto a Gibellina in Sicilia: abbiamo dovuto finirlo noi come Fondazione per il centenario della nascita, lui non ci riuscì. L’Italia ha una carenza strutturale, endemica, riguardo a un collezionismo ad altissimo livello, a fondazioni in grado di finanziare e grandi sponsor. Un artista pur noto come Luciano Fabro dovette fare una colletta tra collezionisti per fare alcune sculture, si dovette ingegnare e alcune sue sculture hanno trenta proprietari”. Nel passato, per esempio nel Rinascimento e dopo, non era così. “Infatti. Basti pensare al Bernini: aveva il Papa che pagava le sue opere e guardiamo quanti e quali capolavori ha realizzato”.

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Il sito della mostra di Staccioli

Il sito della mostra di Mattiacci

 

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