Marini: la tradizione del gioiello contemporaneo in Sardegna

Ha esplorato, fin dagli anni Sessanta e Settanta, i percorsi contemporanei dell’arte e del design (dal Razionalismo all’Informale). A Sassari la figlia Franca continua il percorso del padre Vincenzo

Marini: la tradizione del gioiello contemporaneo in Sardegna
Vincenzo Marini: mono-orecchino in ossidiana e diaspro
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20 Ottobre 2025 - 10.29


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di Luisa Marini

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Dell’oreficeria in Sardegna è nota la tradizione orafa che utilizza la filigrana, ancora oggi ben viva e molto simile alle tecniche etrusche, ma in questo panorama quella di Vincenzo Marini (Quartu S. Elena 1939 – Sassari 2021) è considerata una figura insieme eccezionale per il livello dell’opera e identitariamente rappresentativa.

Partendo dalla tradizione del gioiello sontuosamente decorativo della sua terra, attraverso l’artigianalità, Marini ha esplorato, fin dagli anni Sessanta e Settanta, i percorsi contemporanei dell’arte e del design (dal Razionalismo all’Informale), creando, soprattutto da inizio anni Ottanta fino alla sua scomparsa, pezzi unici volti al futuro e insieme legati al tema dell’identità. Marini è sicuramente il più conosciuto anche all’estero, per aver tra gli altri realizzato un pendente in fluorite sarda con fili d’oro e perle naturali per Lady Diana.

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Nel percorso del maestro orafo è fondamentale lo scambio fecondo instaurato con il pittore Mario Manca, Direttore dell’Istituto d’Arte di Sassari, dove Marini entra nel 1963 come insegnante. Manca, dopo un trentennio vissuto a Roma, è tornato in Sardegna portando una ventata di novità ed energia e reso l’Istituto un centro molto dinamico di ricerca: Marini qui si apre ad una sperimentazione che già era nelle sue corde.

Fin dagli esordi volto alla semplificazione e pulizia della forma tradizionale e alla ricerca di nuovi cromatismi, l’orafo si spinge avanti: dapprima adottando severe geometrie, poi sondando le qualità plastiche delle pietre dure della sua terra, ossidiana, fluorite, ametista, calcedonio perché, diceva, “sono pietre ‘pure’, incapaci di turbare la neutralità dell’analisi”. Così, le rende protagoniste, sospese di volta in volta a fili d’oro o argento, studiando tutte le varianti del rapporto tra pieno e vuoto, positivo e negativo. Il recupero di questi materiali, cosiddetti “poveri”, fino all’uso del plexiglass, implica anche il rifiuto di considerare l’ornamento quale simbolo di ricchezza e di status sociale, bensì uno strumento di comunicazione concepito in relazione al corpo, che si muove e dialoga con esso, come i suoi famosi mono-orecchini.

Un “elemento” di girocollo di Vincenzo Marini

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Nel catalogo di una sua mostra del 1995 si legge: “Non più sintetica ed assoluta, come nella fase dell’ossidiana, nelle prove più recenti la forma è indagata nel suo divenire, nella relatività delle apparenze, nei minimi accidenti della sua storia. È un tentativo affascinante di ricostruirne le genealogie complesse e difformi, di disseppellire le radici.”

I figli di Vincenzo Marini, che conservano ognuno una parte della collezione, hanno voluto quest’anno omaggiare il padre con il libro fotografico “Vincenzo Marini. Gioielli” di Carlo Delfino Editore, curato dalla critica Giuliana Altea che ha seguito l’artista negli anni. Nel libro, che ricostruisce per la prima volta in modo completo il percorso creativo dell’artista dagli esordi fino alla scomparsa, si cerca di raccontare il perché profondo dei suoi gioielli, a partire dalla definizione ambigua di “gioielleria contemporanea” che, come spiega la Altea, “non possiede semplicemente il valore di riferimento temporale, ma sta a significare soprattutto un approccio”.

Oggi, la sua importante eredità è stata raccolta e prosegue grazie alla figlia Franca Marini (Sassari 1969), che lo ha affiancato per anni in laboratorio acquisendone, insieme ai geni, tecnica e creatività. Franca dal 1993, con il suo personale lavoro di ricerca e sperimentazione, si è data l’obiettivo di dare un contributo di rinnovamento soprattutto formale al comparto dell’oreficeria contemporanea, sempre attraverso l’uso delle pietre dure della Sardegna, studiando come l’intreccio di forme e colori possa creare un rapporto intimo col corpo come lo viviamo oggi, per far nascere un gioiello nuovo, che sia anche espressione di internazionalità.

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“Ogni mia creazione orafa” mi dice “nasce da un gesto d’amore verso la materia e la forma. Attraverso i metalli e le pietre racconto storie di identità, memoria e bellezza. È in questo dialogo silenzioso tra mani, cuore e materia che prende vita la mia visione: trasformare l’arte orafa in espressione autentica del sentire”.

Nel suo laboratorio “Marini Gioielli” a Sassari (che, per scelta, non ha vetrine esterne) crea pezzi rifuggendo la ripetizione commerciale, perché crede intimamente, come insegnatole dal genitore, che le creazioni in questo campo siano situate al confine tra l’opera d’arte, che è unica, e il gioiello, multiplo ma mai ripetuto: “La strada che sto percorrendo rispetto ad anni fa”, mi spiega, “sia dal punto formale che tecnico, è rimasta la stessa, uso i macchinari, ma ad esempio non la stampante 3D”, perché la manualità è imprescindibile.

Franca è donna visionaria perché nell’arte orafa l’idea è un’intuizione unica e irripetibile, come un sogno ad occhi aperti, e anche perché sa che comunicare al mondo il valore della ricerca iniziata con il padre può passare da una sfilata di moda (sarda) o da una mostra che parta dalla Sardegna per raggiungere le capitali del mondo.

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Dopo la presenza in varie collettive e mostre, in Italia e all’estero, tra Sassari, Firenze, Roma, Bruxelles e Arabia Saudita, i suoi gioielli attualmente sono esposti tra l’altro ad Olbia all’Eccelsa Aviation, dove in Sardegna atterrano i jet privati fin dagli anni Sessanta dell’Aga Khan.

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