Le Edizioni Alegre, società cooperativa giornalistica con sede a Roma, ha avviato una nuova collana editoriale diretta da Alberto Prunetti, “Working Class”: la inaugura “Ruggine, meccanica e libertà” di Valerio Monteventi. Il romanzo narra di un ragazzo che a Bologna entra in una fabbrica di moto a metà anni ’70 per essere a contatto degli operai, studia giurisprudenza , ha genitori comunisti. Il protagonista, dopo essere diventato un rappresentante sindacale, attraversa il ’77, la fine degli anni ’70, finirà in carcere per un errore giudiziario, dopo varie vicissitudini tornerà dietro le sbarre per aiutare chi è in galera.
Perché chiamare una collana all’inglese “working class”? “Perché – scrive l’editore sul suo sito – il termine “classe lavoratrice” ci dice di più della nuova classe di sfruttati che oggi lavorano nella logistica, nei servizi, nella ristorazione, nelle vendite, e non solo nella metalmeccanica, come le tute blu dell’epoca in cui la classe operaia tentava l’assalto al cielo. Perché è in Inghilterra che è nata la classe operaia. Perché è in lingua inglese che la narrativa working class ha prodotto i suoi frutti migliori, da Alan Sillitoe a Margareth Powell, da Irvine Welsh a Anthony Cartwright”.
Di seguito, su gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un brano dal primo capitolo del romanzo di Monteventi. L’autore, bolognese (1954), ha lavorato alla Ducati, ha fatto il rugbysta, il giornalista, altri mestieri (perfino l’astronauta in una serie tv su Canale 5), politica.
Passato con qualche furbizia l’ostacolo del colloquio, a metà gennaio del 1975 arrivarono l’assunzione e il primo giorno di lavoro. Mi misero subito ad assemblare semilavorati che venivano prodotti nelle fabbriche dell’indotto. Si trattava di operazioni di pochi minuti, estremamente parcellizzate, niente di affrancante e liberatorio. Erano comunque il preambolo per accedere alla mitica catena di montaggio.
Quando avvenne mi resi conto sulla mia pelle che lavorare alla catena era molto peggio di come lo descrivevamo sui volantini. Per reggere ai tempi dettati dai motori che scorrevano davanti sulla linea e per stare concentrato sul pezzo canticchiavo ossessivamente, a mo’ di mantra, un verso di una canzone di un cantastorie veneziano, resa famosa da Bruno Lauzi. Perché nessuno mi sentisse lo cantavo con toni bassissimi, quasi sussurrati.
Tutto quello che hai studiato
dentro qui non serve a niente,
non importa un accidente
cosa poi tu voglia fare.
Superati i trenta giorni di prova, la conferma del posto arrivò insieme alla prima busta paga. Da quel momento il mio atteggiamento cambiò, non dico che diventai arrogante ma non mi feci più mettere i piedi in testa da nessuno, tantomeno dai capi. Cominciai a fare le pulci sulle cose che non andavano e a mettere in discussione i ritmi troppo veloci. Il reparto di montaggio in cui lavoravo era stato formato da alcuni mesi e i ragazzi, da poco assunti come me, erano la stragrande maggioranza. In breve mi trovai insieme a tanti altri a rivendicare condizioni lavorative migliori e a contestare l’andazzo che vigeva nelle varie postazioni della catena.
La cosa fece preoccupare subito la direzione, ma anche il gruppo dirigente del sindacato. Il vecchio capo comunista del consiglio di fabbrica si presentò in officina per ammonirci: «Vi faccio presente che qui non va di moda l’autodeterminazione dei tempi di lavoro, c’è la contrattazione a dettare le regole, altrimenti ci sarebbe l’anarchia».
Sulle prime lo lasciai dire, ma poi quando gli scappò detto: «Qui si viene per lavorare, noi difendiamo i diritti, ma siamo esigenti anche sui doveri… non so come la pensiate, ma in questo stabilimento il lavoro dà dignità e va rispettato», sbottai: «Lascia perdere la retorica dello sgobbo. Non mi vergogno di fare l’operaio, anzi… ma se ho accettato di stringere bulloni per otto ore al giorno è perché ho bisogno di soldi. Se proprio devo imparare i trucchi del mestiere, vorrei imparare come ci si lava bene le mani alla fine del turno, piuttosto di come si usa una chiave dinamometrica».
Le mie parole erano sbagiuzza, segatura, alle orecchie dei vecchi quadri comunisti, stupidaggini dette da un ragazzotto che viveva la fabbrica come un porto di mare, senza avere la dimestichezza, l’attitudine e la compostezza necessarie per calpestare il pavimento di uno stabilimento industriale.
Oltre a provocarli, sapevo anche come prenderli però. Quei vecchi militanti del Partito comunista non erano molto diversi da quelli che frequentavano casa mia quando ero bambino. Per lisciarli bastava fare leva sul sentimento, lubrificandolo con un po’ di ideologia:
«Io, come voi, vado fiero della mia tuta blu. Perché penso che, se le tute blu si prendono sotto braccio, possono cambiare la faccia al mondo».
Ma in generale preferivo provocarli perché mi divertivano le loro risposte:
«Compagni, io vado pazzo per le masse, ma la testa non l’ho mai mandata all’ammasso… non mi potete proporre la meccanica come linguaggio universale».
«Giovane, se imparassi a montare una boccola come sei capace di fare l’asino saresti un fior di meccanico. Con la tua filosofia da quattro soldi non si va da nessuna parte e si finisce nella sbagiuzza. Ricorda che per essere comunisti ci vuole serietà, severità e austerità».
A un dato momento tutte le diverse anime della fabbrica trovarono un luogo in cui era possibile convivere e mescolarsi: la macchina del caffè. Lì davanti si era tutti sullo stesso piano, tutte le scale gerarchiche saltavano; era l’unico, vero punto d’incontro tra diverse generazioni di operai. La tazzina del caffè attestava la dignità umana, ancor prima che professionale, dei lavoratori.
Io la chiamavo la “conversione laica delle carte sparigliate”. Così come nel gioco delle carte, soprattutto nella scopa e nello scopone scientifico, con una sola carta se ne possono prendere diverse, allo stesso modo con la tazzina del caffè si riusciva a tenere insieme sensibilità e professionalità differenti, senza bisogno di allestire improvvisate omelie da imbonitore da officina, uscendo da quella liturgia di cui erano maestri i sindacalisti.
Non c’era nulla di scientifico in quella battuta, ma divenne il principio guida che mi accompagnò nel succedersi delle giornate di fabbrica. Così, scortato da un esercito di tazzine di caffè, tra un seeger e una vite a testa svasata, riuscii a sedimentare una mia personalissima forma di tenuta meccanica. Se durante il giorno la testa non mostrava cedimenti, era di notte che affiorava il danno che la fabbrica, coi suoi ritmi inumani, stava producendo in me. Prima di allora non avevo mai avuto un gran campionario di sogni su cui ragionare. Da quando invece lavoravo alla catena di montaggio mi capitava spesso, appena chiudevo gli occhi, di vedermi passare davanti, allineati come in una parata militare, tutti gli anelli d’arresto in acciaio elastico con cui giornalmente avevo a che fare. Quella truppa meccanica mi comprimeva la testa, quasi a farla scoppiare. Poi, per fortuna, arrivavano i prigionieri, le viti senza testa filettate su ambedue le estremità, che una via di fuga la lasciano sempre, e tutto mi sembrava più affrontabile.
Valerio Monteventi, Ruggine, Edizioni Alegre, collana Working Class, 303 p., 16 euro