Criptovalute: monete digitalizzate ma anche strumento di narrazione politica

La prima transazione del 22 maggio 2010 segnò un passaggio culturale, economico e politico cruciale. Per i “tecnonazionalisti” trumpiani le criptovalute sono l’alternativa all’élite liberal-finanziaria di Wall Street e dei governi globalisti.

Criptovalute: monete digitalizzate ma anche strumento di narrazione politica
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21 Maggio 2025 - 09.24


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di Marcello Cecconi

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Promosse come simbolo di libertà economica, alternativa all’élite liberal-finanziaria di Wall Street e dei governi globalisti, le criptovalute hanno assunto oggi una connotazione sovranista e libertaria perché nate con l’idea di eliminare gli intermediari (banche, stati, aziende centrali) rendendo i dati pubblici, immutabili e distribuiti. Con il nuovo ciclo politico inaugurato da Donald Trump e accompagnato da figure come Elon Musk, Peter Thiel e altri “tecnonazionalisti”, sono diventate anche uno strumento di narrazione ideologica.

Tutto ebbe inizio il 22 maggio 2010 quando Laszlo Hanyecz, programmatore della Florida, pubblicava sul forum Bitcointalk un’offerta curiosa: 10 mila Bitcoin in cambio di due pizze. Un utente accettò la proposta, ordinandogli due pizze da Papa John’s. “Magari – scrisse Laszlo- due grandi, così me ne avanza un po’ per il giorno dopo”. Nacque quello che è passato alla storia come il primo scambio commerciale documentato tramite una criptovaluta. Ma quel gesto, oggi iconico, segnò un passaggio culturale, economico e politico cruciale.

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Il Bitcoin fu il primo esperimento di questo genere, è nato all’inizio del 2009 da una sola mente (o collettivo, non è dato sapersi) sotto lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto, come reazione alla crisi finanziaria del 2008. Era, in un certo senso, una dichiarazione politica: rimettere il potere monetario nelle mani dei cittadini svincolandolo dalle politiche inflazionistiche delle banche centrali.

Ma cos’è la criptovaluta? È una forma di moneta digitale decentralizzata che si basa su tecnologia blockchain, vale a dire un distributed ledger (libro mastro distribuito) che garantisce la sicurezza, la trasparenza e l’immutabilità delle transazioni. A differenza delle valute tradizionali emesse da banche centrali, le criptovalute sono “create” attraverso un processo che richiama il lavoro in miniera. Si chiama, infatti, mining (estrazione), l’attività di “produzione” della moneta che si basa su applicazioni software che girano su un hardware appositamente progettato dove i miner (minatori o creatori) di tutto il mondo collegano i loro dispositivi regolamentati da algoritmi e formando così una rete peer-to-peer. Insieme, gestiscono questo “libro mastro” dei Bitcoin verificando che solo le transazioni legittime vengano approvate, cioè verificando che ogni transazione sia unica e che nessuno stia cercando di “spendere due volte” uno stesso Bitcoin, copiando più volte lo stesso codice digitale. 

Nel 2010, il programmatore di computer Laszlo ha pagato l’equivalente di circa 41 dollari per la consegna delle due pizze mentre oggi se si pagassero gli stessi 10 mila Bitcoin le pizze varrebbero più di 180 milioni di dollari l’una. Una immensa e spericolata rivalutazione, ma la vera trasformazione è avvenuta nella percezione culturale e istituzionale della criptovaluta: dall’essere considerata un esperimento di finanza anarchico, Bitcoin e le molte sue “sorelle” nate in seguito sono divenute anche oggetto di investimento istituzionale. Sono oggi al centro dell’attenzione nei vertici di finanza e geopolitica globale e sono state addirittura moneta legale in alcuni paesi come El Salvador, operazione poi cancellata a gennaio di quest’anno cedendo alle pressioni del Fondo monetario internazionale in cambio di un prestito da 1,4 miliardi di dollari.

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Oggi il sistema della criptovalute è interpretato da molti attivisti digitali come un’alternativa concreta al “controllo”centralizzato esercitato da Stati autoritari, che sorvegliano e limitano l’accesso all’informazione e alternativa anche ai colossi della Silicon Valley (Google, Meta, Amazon), accusati di manipolare dati, censurare contenuti e guidare l’opinione pubblica attraverso algoritmi opachi. Insomma, la blockchain è stata idealizzata come una sorta di “Internet libera 2.0”, un luogo in cui nessuno può decidere cosa vale, cosa esiste, cosa si può pubblicare o comprare. In questo senso, la criptovaluta è diventata campo di battaglia culturale prima ancora che tecnologico o economico.

Rispondere alla domanda se le criptovalute potranno diventare moneta legale diffusa non è facile. In senso stretto, come abbiamo visto, è già accaduto in El Salvador e anche nella Repubblica Centrafricana, ma si tratta più di esperimenti di rottura politico/finanziaria di paesi in estrema difficoltà economica e povertà diffusa che veri cambiamenti di sistema. I paesi più solidi, infatti, stanno lavorando invece a proprie valute digitali centralizzate (Cbdc), come il futuro Digital Euro o il già esistente Yuan Digitale cinese, cercando così di mantenere il controllo in mano pubblica.

Dunque, il gesto di Laszlo del 2010 non fu solo una transazione ma un atto simbolico che ha influito sul senso stesso del valore del denaro e della fiducia collettiva. Quindici anni dopo, il futuro delle criptovalute è ancora incerto, ma una cosa è chiara: la cultura del digitale e della disintermediazione è sempre più diffusa. Ecco perché quella pizza, oggi, vale molto più dei 10 mila Bitcoin con cui fu pagata. Vale una vera e propria rivoluzione.

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