Ucraina: trentatré anni di indipendenza tra sacrifici, guerra e l’attesa di una pace che non arriva

Il 24 agosto 1991 si aprì una stagione di speranza pur nella fragilità dell'ombra di Mosca. Oggi l’Ucraina è davanti alla sua prova più difficile: resistere all’aggressione, mantenere la fiducia dei propri cittadini e non perdere il legame con l’Europa e con gli Usa

Ucraina: trentatré anni di indipendenza tra sacrifici, guerra e l’attesa di una pace che non arriva
La ricorrenza dell'Indipendenza dell'Ucraina (foto Ansa/Epa)
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Marcello Cecconi Modifica articolo

23 Agosto 2025 - 13.04


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Con il crollo dell’Unione Sovietica, l’Ucraina dichiarava la propria indipendenza. Era il 24 agosto 1991 quando questa scelta aprì per milioni di cittadini una nuova stagione di speranza: l’idea di un futuro europeo, democratico e lontano dall’ombra di Mosca. Eppure, quel distacco non è mai stato lineare.

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Gli anni Novanta furono un decennio fragile: privatizzazioni difficili, instabilità politica, corruzione, rapporti economici ancora dipendenti dalla Russia. Nel 2004, la “Rivoluzione arancione” segnalò la volontà popolare di opporsi alle manipolazioni del Cremlino e di reclamare libere elezioni. Dieci anni dopo, la rivolta di Maidan trasformò Kiev in simbolo di resistenza civile: la caduta del fantoccio di Putin, Yanukovich, e l’avvicinamento all’Unione Europea portarono Mosca a reagire con l’annessione della Crimea e l’accensione del conflitto nel Donbass.

Il 24 febbraio 2022 il conflitto latente esplose in un’invasione su vasta scala, ma le prime settimane furono segnate dalla sorpresa: la resistenza ucraina, guidata da Volodymyr Zelensky, respinse l’assalto su Kiev. Da allora, la guerra è divenuta logoramento, con città distrutte, milioni di sfollati e un’intera generazione chiamata al fronte. Parte della società civile si è trasformata in una retrovia del fronte con volontari che forniscono aiuti alle famiglie che invece si dividono tra chi resta e chi fugge.

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Tra le immagini più emblematiche di questo conflitto c’è quella dei giovani ucraini, quei ragazzi e quelle ragazze che sognavano Erasmus, startup e viaggi, e che oggi imbracciano un fucile nelle trincee. La loro resistenza è l’anima di un Paese che non vuole cedere, ma anche il segno di un trauma collettivo che comincia a far vacillare la speranza e che, comunque, segnerà l’Ucraina per decenni.

In questa lunga crisi, il ruolo dell’Europa resta centrale ma non privo di ambiguità. L’Unione Europea con difficoltà ha mostrato compattezza nelle sanzioni contro Mosca e negli aiuti finanziari e militari a Kiev, e le differenze interne non mancano: tra i Paesi dell’Est c’è chi percepisce la guerra come minaccia diretta e altri, come Ungheria e Slovacchia, che mostrano benevolenza verso Mosca. Tra quelli occidentali, compresa la Gran Bretagna, c’è più cautela con divisioni tra chi chiede maggiore coinvolgimento e chi teme un conflitto senza fine.

Questa mancanza di un’unanimità politica indebolisce la voce dell’Europa sulla scena globale, lasciando spesso agli Stati Uniti l’ultima parola. Per Kiev, questo significa incertezza sul lungo periodo: la solidarietà europea è forte, ma non sempre lineare. Infatti, i vertici per la pace hanno mostrato tanta retorica e poca sostanza.

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L’ultimo, quello di Washington, presentato come un cruciale per definire nuove strategie di sostegno all’Ucraina, ha lasciato Zelensky con promesse di aiuti e armi, ma senza quella svolta politica capace di imprimere un possibile “cessate il fuoco” che darebbe una direzione chiara al complicato negoziato di pace. Un risultato che arriva a Kiev con duplice valenza: da un lato la certezza che l’appoggio occidentale non viene meno, dall’altro la percezione che la pace non sia vicina perché le stesse cancellerie restano divise su tempi e modalità di un possibile negoziato.

Dopo lo sbandierato incontro a tre tra Putin, Zelensky e Trump, ipotesi che somiglia più a un esercizio di equilibrio politico che a una reale prospettiva di pace, ecco il solito colpo di teatro con la marcia indietro di Trump che lascia la patata bollente del vertice a “olio e aceto”, vale a dire ai soli Putin e Zelensky, pur conoscendone la quasi impraticabilità. Mosca, intanto, continua a investire sulle armi, mascherando con la forza militare le proprie fragilità economiche e politiche. Tre giorni fa è stato battuto il record di droni e missili sull’Ucraina con 614 lanci e, qui, ogni giorno si paga un tributo di vite, mentre la ricostruzione appare ancora un miraggio.

Dopo trentatré anni di indipendenza, l’Ucraina è davanti alla sua prova più difficile: resistere all’aggressione, mantenere la fiducia dei propri cittadini e non perdere il legame con l’Europa e con gli Usa. È una sfida che va oltre i confini: riguarda l’idea stessa di libertà e autodeterminazione in un continente che, dal 1991, pensava di aver archiviato le guerre.

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