Il traffico gigantesco delle persone ridotte in schiavitù

Un crimine in crescita. Nel mondo 2,4 milioni di persone sono scomparse e sfruttate da negrieri: l'80% nel sesso, il 17% in lavori forzati, l'80% è donna. E ci sono gli organi presi in modo illegale

Il traffico gigantesco delle persone ridotte in schiavitù
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27 Dicembre 2017 - 09.59


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Enzo Verrengia

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Nel mondo vi sono più di 2,4 milioni di vittime scomparse nel nulla. Non per omicidi, sequestri o rapimenti da parte degli alieni, bensì per il contrabbando di carne umana. L’80% finisce nel giro della schiavitù sessuale, il 17% viene costretto a lavori forzati, e sul totale prevalgono le donne con una maggioranza di due su tre.
Il mercato che cannibalizza gli esseri umani frutta ai suoi negrieri 32 miliardi di dollari. Combatterlo è «una sfida di proporzioni straordinarie», secondo Yuri Fedotov, il capo dell’ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e i crimini. Gli ha fatto eco Michelle Bachelet, responsabile dell’UN Women, l’agenzia per le donne delle Nazioni Unite, affermando: «È difficile pensare a un reato più orribile e scioccante di questo, che peraltro è uno dei più redditizi e sta registrando un’ascesa molto rapida».
Sul problema, si registra anche l’intervento dell’attrice Mira Sorvino, ambasciatrice di buona volontà delle Nazioni Unite: «La schiavitù moderna è battuta solo dal traffico di droga per i profitti». Particolarmente critica verso la scarsità di fondi che tutti i Paesi stanziano contro questo crimine orripilante. «Negli Stati Uniti» ha riferito la Sorvino «solo il 10% delle stazioni di polizia ha un protocollo sul traffico di umani».
Tutto ciò, malgrado dal 25 dicembre 2003 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite abbia adottato il Protocollo per Prevenire, Sopprimere e Punire il Traffico delle Persone.
In realtà, gran parte dei Paesi, non solo occidentali, prevede sanzioni specifiche in materia. Entro il novembre 2008, 98 dei 155 stati nel mirino dell’Onu avevano varato apposite leggi. Ma in quasi tutta l’Africa, non esiste un riconoscimento del reato. E neppure nella penisola arabica. Non a caso, le due aree vengono indicate come quelle di maggiore rischio per le sparizioni senza ritorno. Spesso vi contribuisce la voga della ricerca di luoghi a rischio. Dagli ultimi decenni del XX secolo, forse per superare una contemporaneità troppo banale, ci si indirizza verso l’imprevisto. I viaggi avventurosi, una volta obbligatori perché la Terra era ancora tutta da esplorare, diventano una moda. In realtà, fin dal passato, l’incognita appartiene al viaggio per fattori intrinseci: l’estraneità dei posti e del genti che si parano lungo la strada. Fa testo un altro adagio risaputo, di Alfred Korzybski: «La mappa non è il territorio». Le conoscenze preventive e teoriche non sempre trovano conferma nell’esplorazione diretta. Inoltre, la condizione post-moderna dissolve tutte le garanzie, sul lavoro, per le strade insicure delle città ed anche nei luoghi scelti per una pausa ristoratrice. Per di più, l’acredine anti-occidentale di quelle latitudini.
Le statistiche dell’Onu indicano un 90% di manovalanza maschile nell’organizzazione dei traffici. Pure, è un dato al quale se ne contrappone un altro, sorprendente. In 46 Paesi, le donne giocano un ruolo chiave nei rapimenti di questo genere. Purtroppo, però, costituiscono anche la più alta porzione delle vittime, il 66%. Per il resto, il 13% è fatto di ragazze, il 12% di uomini ed il 9% di ragazzi. Da tempo, i flussi non si svolgono più solo con semplici attraversamenti di confine, come tra il Messico e gli Stati Uniti, per esempio. Vittime dell’Asia orientale sono state ritrovate in oltre 20 nazioni sparse in tutto il mondo. Le rotte lunghe del traffico portano dall’Africa all’Europa ed all’America settentrionale, dall’America Latina agli Stati Uniti o dall’estremo al medio Oriente.
Accanto alle azioni di contrasto mediante le forze dell’ordine, l’Onu ha promosso il Fondo Volontario delle Nazioni Unite per le Vittime del Traffico di Esseri Umani, amministrato dall’Unodc, United Nations Office on Drugs and Crime. Il finanziamento serve a coprire spese legali e burocratiche per chi riesce a trovare scampo dalle grinfie dei nuovi negrieri.
Il traffico di organi trapiantati
C’è un aspetto non secondario del traffico, ancora più atroce. Il rapimento e l’uccisione per il mercato degli organi da trapiantare. Un ignobile e redditizio giro di affari iniziato nel 1970, con l’introduzione dei farmaci anti-rigetto e l’apertura di una nuova frontiera sulla linea pericolosa che separa la medicina dalla morale. Fino al 1994, quando si legiferò in termini restrittivi, il primato del traffico di organi lo deteneva l’India. Ancora nel marzo 2008, la loro vendita era perfettamente legale in un altro limbo del Terzo Mondo, le Filippine. Più articolato il caso della Cina. Qui si utilizzavano con liberalità gli organi dei prigionieri, disponibili alla grande visto l’universo concentrazionario del gigante giallo. Tuttavia, il Ministro della Sanità Huang Jiefu dichiarò: «Le donazioni dai prigionieri non sono affatto ideali perché i detenuti tendono ad avere alti tassi di infezioni di funghi e di batteri. Dunque, i tassi di sopravvivenza dei soggetti con organi trapiantati in Cina risultano essere stabilmente al di sotto di quelli negli altri Paesi». Perciò l’attuale divieto di espianto introdotto in Cina è motivato da considerazioni igienico-sanitarie, non etiche o umanitarie.
Prima si procedeva con brutale rapidità. I condannati venivano uccisi con un colpo di pistola alla nuca, dopodiché si praticava l’espianto in un gabinetto medico alla Frankenstein. Malgrado l’eccesso demografico, la tradizione cinese vuole che non si sia seppelliti senza la propria salma intera. Di qui l’esiguità dei donatori volontari: solo 130, negli ultimi anni, su un miliardo e duecento milioni di abitanti.
Il mercato cannibale, allora, non si ferma alla vita. Infierisce anche dopo la morte. Di più, la provoca per prolungare, a pagamento, quella di chi può permettersela.

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