“Youngstown” è una ballata dolente, toccante, dall’album del 1995 “The Ghost of Tom Joad” di Bruce Springsteen su una città dell’acciaio nell’Ohio che per la crisi economica affonda. È una città dove il padrone campava sul sangue, dolore e fatica del protagonista, rimasto a terra quando la sua manodopera non è più servita. Canta una città americana delle fabbriche, del ferro e del carbone, canta la fatica, gli operai, le strade, le persone, la mostra “Pittsburgh. Ritratto di una città industriale” a opera di un fotografo dalla vita professionale travagliata venuto prima del Boss del rock: W. Eugene Smith (1918-1978). A Bologna potete vedere 170 scatti “vintage” del suo “poema” per immagini, come lo definisce Urs Stahel che ha curato la retrospettiva aperta fino al 16 settembre alla Fondazione Mast e organizzata insieme al Carnegie Museum of Art di Pittsburgh che ha prestato quasi tutte le immagini (quattro appartengono alla Manifattura di arti sperimentazione e tecnologia bolognese che da tempo raccoglie ed espone fotografie sul lavoro).
Lavoro duro, acciaio e dignità
Cosa vediamo, in queste scene urbane e industriali modulate su bianchi e neri e grigi e sfumature? Nel “forgiatore”? Nelle scene intorno allo sciopero nelle acciaierie? Cosa vediamo quando vediamo l’operaio mescolare il metallo fuso? Possiamo ripensare a quel lavoro durissimo, estremo, che tuttavia dava pane e dignità. Pensiamo alle acciaierie italiane dove i lavoratori da anni stanno sul filo del rasoio, quando non perdono il posto, come all’Ilva di Taranto o alle acciaierie di Piombino. E vediamo che Smith comprendeva quel lavoro, quelle persone. Con un una fiducia di fondo nel futuro oggi forse incrinata.
Il critico Stahel: il mega-reportage lo portò alla bancarotta
Come racconta ai giornalisti Stahel, curatore della collezione del Mast, Smith era un perfezionista incredibile, doveva avere un caratteraccio (quanti grandi, hanno un carattere difficile), non sempre consegnava il lavoro in tempo pure se erano le testate più importanti degli Stati Uniti. Dopo aver fatto da fotoreporter di guerra per “Life”, dopo altre riviste, non voleva limiti alla sua ricerca artistica. Nel 1955 W. Eugene Smith doveva scattare un centinaio di foto, su commissione, per celebrare i duecento anni di Pittsburgh “in pieno boom economico grazie alla crescita dell’industria siderurgica e delle sue acciaierie che attiravano operai da tutto il mondo”. Il fotografo non si fermò. Smith si innamorò delle storie di una città industriale multiforme, delle sue ombre: andò a esplorare lo stadio di baseball, i fumi nelle fabbriche che sembrano l’inferno di Dorè per il poema di Dante, le chiatte sul fiume, i bambini, bianchi e neri, mentre giocano per strada. L’obiettivo assume una certa distanza fisica e, al contempo, vicinanza: ha una forte presenza emotiva, psicologica. L’autore sembra condividere, quei pensieri, quelle battaglie quotidiane per campare. Vedi bene che i suoi soggetti preferiti non sono ricchi, non sono benestanti. E comprendi perché il fotografo voleva dedicare un libro da duemila pagine al suo mega-reportage da 17mila scatti schiacciato dalle sue stesse dimensioni ciclopiche: se lo autofinanziava, fu un tracollo economico e la bancarotta.
Una nota dello stesso W.E.S., come si firmava, rafforza la sensazione che queste foto siano storia e siano l’oggi di una moltitudine: “Arrivarono dai bassifondi di Dublino e di Manchester e dalla Germania. Dopo il 1870 arrivarono dalle fattorie e dai ghetti – polacchi, ungheresi, slovacchi, cechi, russi, italiani (E più tardi, in fuga dall’odio che si presentava sotto forma di cappucci bianchi e croci fiammeggianti, arrivarono i profughi neri dal profondo Sud). In comune avevano solo le fornaci, gli incidenti, i salari da fame e gli scioperi. [… ] ma per i loro figli le nuove strade si aprirono con minor difficoltà”. Non parla al nostro oggi, qui in Italia, in Europa?
“Un fuorilegge solitario della fotografia”
Le immagini prestate da Pittsburgh, ricorda Stahel, non erano mai arrivate nella nostra penisola. W. Eugene Smith fotograficamente parlando si sarà ispirato anche Bill Brandt (Brand è la versione originale del suo cognome tedesco)? Al fotografo inglese che raccontò anche l’Inghilterra industriale e povera? “Deve aver conosciuto il suo lavoro”, risponde il critico definendo l’autore americano “un fotogiornalista che voleva essere ed era artista, una sorta di fuorilegge per la sua estetica senza compromessi, un solitario che non voleva descrivere il mondo, voleva incorporarlo e portarlo alla vita”. A Pittsburgh incorporò quelle vite per noi senza nome e, pur se ne vediamo solo un distillato, tocca corde profonde.
Il catalogo, edito da Mast con Electa, agile, comodo, di 46 pagine, non restituisce però le gradazioni e la profondità di questi scatti.