Ricordate quanto Matteo Renzi sindaco di Firenze si ostinò a voler cercare l’affresco perduto (anzi la pittura murale) di Leonardo da Vinci a Palazzo Vecchio che raffigurava la Battaglia di Anghiari? Era il 2012, ne parlò tutto il mondo e una ricerca ampiamente foraggiata produsse un’indagine con tanto di fori sull’affresco di Giorgio Vasari nel Salone dei Cinquecento. Il ritrovamento di un materiale nero spinse i più avventati a parlare perfino di un «nero della Gioconda». Una scritta in una bandiera, «chi cerca trova», indusse Dan Brown a immaginare nel suo romanzo Inferno un enigma, un invito a cercare qualcosa sotto quei colori. Gli ingredienti per una ricerca alla Indiana Jones intorno a uno dei miti più inossidabili della civiltà figurativa occidentale erano tutti in tavola. Peccato che le analisi abbiamo dimostrato tutt’altro. Secondo i curatori di un poderoso volume le ricerche dimostrano addirittura che Leonardo non dipinse mai quella fantomatica battaglia per la Repubblica fiorentina.
Il libro è per studiosi e il titolo non lancia esche mediatiche: La Sala Grande di Palazzo Vecchio e la Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci. Dalla configurazione architettonica all’apparato decorativo (Olschki editore, Biblioteca Leonardiana. Studi e Documenti, xxiv-596 pp., con 168 figure a colori, 60 euro). Di questo hanno parlato agli Uffizi, presente il direttore Eike Schmidt, i curatori del libro Roberta Barsanti, Gianluca Belli, Emanuela Ferretti e Cecilia Frosinini. La quale Frosinini, storica dell’arte tra le più esperte di restauro in campo internazionale in servizio all’Opificio delle pietre dure del ministero dei beni culturali, conferma: l’autore della Gioconda sulla parete dell’allora Sala del Gran Consiglio fiorentino, nel 1503-4 circa non poggiò nemmeno il pennello; disegnò il cartone preparatorio, ma è altra faccenda dal dipinto.
«Sulla Battaglia di Anghiari – racconta Cecilia Frosinini – si è creata una mitologia anche perché sulla parete opposta doveva esserci la Battaglia di Cascina del rivale Michelangelo. Nel 2012 i finanziatori della ricerca si aspettavano di vedere i cavalli galoppanti di Leonardo spuntare dalla parete. Qualcuno auspicò addirittura di strappare parte della pittura del Vasari. Allora Romano Nanni, direttore della Biblioteca leonardiana di Vinci, già esponente del Pci, morto prematuramente nel 2014, mise insieme un pool di studiosi di varie discipline, dall’arte all’architettura, dalla filologia agli archivi, per capire se quella pittura era un mito o se potevano esserci rovine. La ricerca durata anni è confluita in questo volume e raccoglie dati su più fronti». Quali, per dire? «Per esempio dopo il crollo della Repubblica fiorentina la sala fu divisa in tanti piccoli quartieri per le truppe, fu soppalcata, ci fecero cucine. Difficile pensare che se c’era qualcosa sia potuto rimanere integro». E l’enigmatico “chi cerca trova” del Vasari? «Era una presa in giro verso i cittadini ribelli dopo che erano tornati al potere i Medici: era un dire “cercate la libertà? Ora ve la danno i Medici, la libertà”. Per il cinema o per una storia alla Dan Brown l’enigma va bene». Per la conoscenza dei fatti no.
«Dalla rilettura accurata dei documenti emerge secondo noi in modo chiaro l’impossibilità per Leonardo di essere arrivato a dipingere la scena. Sono state studiate anche le forniture all’artista: ci sono per il cartone, per preparare la parete, non riguardano materiale pittorico – prosegue la studiosa -. Questo è coerente con quanto credono i memorialisti: le varie copie, da Rubens alla “copia Doria” riportano il cartone, parzialmente colorato come spesso succedeva, destinato al committente, che fu messo per un periodo sul muro e dopo si perse».
Nel 2012 una ricerca guidata dall’ingegnere Maurizio Seracini però rilevò materiali, sotto la pittura del Vasari. «Sì, ma furono analizzati solo in un laboratorio privato. Quando l’Opificio li chiese per analizzarli risposero di averli perduti e non ce li dettero mai. Il volume Olschki include anche un articolo che è l’unica traccia pubblicata su quei materiali. Un chimico esperto in beni culturali che ha studiato anche l’Ultima cena di Leonardo a Milano, Mauro Matteini, ha stabilito che non sono materiali di tipo pittorico bensì comuni, come minerali e pietrisco di fiume. Uno dei campioni venne definito “nero di Leonardo”. Non significa nulla: per tutta l’antichità fino alla metà del ‘700 la tavolozza era la solita, era uno dei cinque o sei neri usati da tutti i pittori. Che si chiamassero Leonardo o meno».