Di Silvia Marchi
Tutti gli uomini del presidente, scritto da William Goldman e diretto da Alan J.Padula, non è soltanto il racconto di un’indagine: è un modello a cui il cinema politico e investigativo ha continuato a guardare per decenni. Pakula costruisce immagini che si sono incastonate nell’immaginario collettivo: un informatore avvolto nell’ombra di un garage, la redazione del Washington Post vista dall’interno come un organismo vivo: ambientazioni che usa per farci entrare nel cuore stesso del giornalismo d’inchiesta.
Il film non ha ricevuto solo riconoscimenti dei critici: si è aggiudicato quattro premi Oscar e otto candidature, confermandosi come una delle opere cardine degli anni Settanta. Eppure, resta sorprendentemente attuale, con la sua rappresentazione della corruzione e dell’omertà che si annidano nei palazzi del potere.
Per 138 minuti lo spettatore entra a far parte della redazione del Washington Post, accompagnato da Carl Bernstein (Dustin Hoffman), guidato dall’istinto, e da Bob Woodward (Robert Redford), fedele alla precisione. Veniamo catapultati in un’immagine cupa, con un ritmo lento ma ipnotico, mentre osserviamo il giornalismo senza alcuna patina di spettacolarizzazione, immersi nella sua demoralizzante quotidianità: raccontando il lavoro, non il mito.
Il film costruisce la tensione attorno a un principio fondamentale del giornalismo: l’anonimato delle fonti. La figura di Gola Profonda non è solo un personaggio iconico, ma anche la rappresentazione di una guida per i due giornalisti, e come ogni altra persona a donargli informazioni, loro non citano mai la fonte, definendo l’anonimato un piastro inscindibile.
Accanto a questo, emerge il tema di potere e verità, trattato con una serietà quasi matematica. Il Watergate non diventa spettacolo, non è un nemico da sconfiggere con un colpo di scena; è un labirinto di menzogne, omertà e piccoli compromessi quotidiani che i cronisti devono smontare con precisione chirurgica. Non c’è epica facile: c’è la fatica di collegare fili invisibili e di seguire indizi che nessuno nota. E questa serietà è ciò che rende il film ancora oggi incredibilmente attuale: il potere, qualsiasi potere, si nasconde dietro dettagli apparentemente insignificanti, e la verità richiede costanza, non solo intuito.
Pakula ci consegna, quindi, un ritratto del giornalismo come mestiere quotidiano: niente eroi, niente colpi di scena a comando. Solo stanze affollate, macchine da scrivere che battono instancabili, telefonate che cadono e notti insonni. Il lavoro lento, ripetitivo, spesso demoralizzante dei cronisti diventa il vero motore della storia. È in questa lentezza e in questa costanza invisibile, che la verità prende forma e peso. La disciplina dei protagonisti, i loro dubbi, le loro discussioni, ci mostrano che il giornalismo non è un gesto romantico, ma un mestiere che richiede respiro, resistenza e precisione.
Pakula riesce a trasmettere la frenesia della redazione, facendo partecipare lo spettatore a ogni telefonata, a ogni appunto. I personaggi sono costruiti con cura e profondità, e ogni scena è calibrata per guidare la curiosità dello spettatore senza semplificare la complessità degli eventi. È un film magistrale, pensato in ogni dettaglio per rendere palpabile il ritmo e la tensione del giornalismo d’inchiesta; non racconta solo un’inchiesta, ma ci mostra che la verità, anche quando nascosta, può emergere se c’è chi sa osservarla con attenzione.
