di Antonio Salvati
Se crediamo nella possibilità di crescita di un Paese, non dobbiamo smettere di scommettere sull’insegnamento. «L’educazione è l’arma più potente che si possa usare per cambiare il mondo», diceva Nelson Mandela. È arrivato il tempo per usare l’educazione come arma potente per cambiare il Paese, partendo dall’educazione, dalla formazione, dai patti educativi e da una scuola aperta al futuro. Ne è convinto Draghi che nel suo discorso per ottenere la fiducia dalle Camere ha confermato di volere i doppi turni al pomeriggio e allungare le lezioni in estate, pur non precisando se vuole mandare gli studenti in classe a luglio o ad agosto.
La questione dovrebbe riguardare in particolare quelli meridionali che più di altri hanno sofferto la didattica a distanza. Draghi ha fatto cenno alle «diseguaglianze» create dall’inadeguatezza delle strutture informatiche, dei trasporti e della sanità contro le quali in un anno di pandemia non è stato trovato un rimedio risolutivo. Piaccia o no, i banchi a rotelle sono stati il simbolo dell’istruzione gestita dal governo Conte-Azzolina. Qualcuno già prevede che i condizionatori d’aria potrebbero diventare il tormentone (estivo) dei successori Draghi-Bianchi.
L’emergenza Covid ha approfondito le disparità nel mondo della scuola. Dalla chiusura delle scuole molti bambini e ragazzi non hanno più seguito adeguatamente il percorso scolastico iniziato. Spesso per marginalità sociale, per povertà e mancanza di mezzi informatici, per arretratezza culturale delle famiglie o dimenticanza istituzionale. Bisogna andare a cercare questi bambini e ragazzi e riportarli a scuola: è un imperativo per tutti, come ha più volte sostenuto la Comunità di Sant’Egidio in quest’ultimi mesi attraverso diverse ricerche puntuali. L’allontanamento forzato dagli edifici scolastici ha aperto diversi interrogativi sul fare scuola agli insegnanti della secondaria, in particolar modo sull’uso delle nuove tecnologie e di modalità diverse di insegnamento. Una certa narrazione dipinge i nostri giovani come dei fannulloni sdraiati sul divano con il cellulare. In realtà, i giovani, che da più di un anno vivono la pandemia, stanno soffrendo. E anche molto.
Alcuni dati forniti recentemente da Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma sono inquietanti: i tentativi di suicidio e autolesionismo sono aumentati del 30%. Dal mese di ottobre 2020 ad oggi, quindi con l’inizio della seconda ondata, abbiamo avuto un notevole rialzo degli accessi al pronto soccorso con disturbo psichiatrico. Nel 90% sono giovani tra i 12 e i 18 anni che hanno cercato di togliersi la vita. Se nel 2019 gli accessi al pronto soccorso erano stati 274, nel 2020 hanno superato quota 300. Al pronto soccorso si registra un ricovero al giorno per “attività autolesionistiche”. L’assenza dalla scuola ha “pesato” tanto sugli adolescenti.
La scuola non è solo didattica: questo è un errore gravissimo. La scuola non può essere vista come luogo di preparazione al mondo del lavoro ma come luogo di formazione del carattere e della conoscenza. All’interno della scuola si cresce culturalmente, ma non solo. Ci si riscatta, ci si afferma. Anche chi appartiene a contesti disagiati, tramite la scuola può studiare e riscattarsi. Se la scuola non c’è, l’affermazione di sé passa attraverso valori negativi: le risse per strada, l’autolesionismo, i litigi violenti, con compagni e genitori. I giovani hanno necessità di ribellarsi, ma più riduciamo gli spazi di possibile “deragliamento”, gli spazi in cui possono infrangere le regole sotto lo stretto controllo dell’adulto – come appunto, le scuole – più queste ribellioni diventano violente.
Circa un anno di didattica a distanza è stato sufficiente per mostrare come la scuola italiana possa essere classista e come la forbice si sia ampliata tra i Pierini e i Gianni (riferimento alla Scuola di Barbiana di Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana; nel testo scritto da don Lorenzo Milani con i suoi allievi, Pierino rappresenta i ragazzi appartenenti alla classe sociale più elevata, mentre Gianni simboleggiava i ragazzi più poveri), facendo riemergere varianti classiche, come il censo e il livello di istruzione familiare. L’ISTAT più volte ci ha segnalato che poco più dei tre quarti delle famiglie dispone di un accesso a internet. Verosimilmente possiamo, pertanto, dedurre che un quarto degli studenti non ha avuto la possibilità di partecipare a momenti di didattica a distanza con strumenti idonei.
Qualcuno ha parlato del virus come di un’odierna “livella”, ricordando Totò. Ma non è così. Non lo è tra gli Stati che hanno sistemi sanitari diversi tra loro e conseguenze diverse sulla popolazione e non lo è nelle nostre scuole. Se questa situazione ci mette tutti dinanzi ad alcune domande di fondo, non ci rende tutti uguali. In un momento in cui emerge il valore dello Stato sociale e del servizio sanitario nazionale – ossia che protegge tutti, compreso chi non potrebbe permettersi le cure – occorre ricomprendere l’importanza anche della scuola, in quanto prima agenzia educativa del Paese, e come i ritardi vengano pagati da tutti, ma specialmente da chi ha meno risorse a cui attingere.
L’emergenza ha posto al centro dell’attenzione nuovamente, anche con nuove sfumature, il tema grave della disuguaglianza e della dispersione scolastica. Da questa vicenda emergenziale dovremmo trarre nuova forza per contrastare il fenomeno, chiaramente non in chiave punitiva ma di riduzione delle disparità. Ci sono bambini disabili che da mesi non partecipano alle attività scolastiche.
È necessaria una task force di analisi dei dati – effettive ore di DaD per istituto scolastico, effettiva presenza dei bambini e ragazzi – in maniera da verificare dove esistano problemi. Serve una analisi dei ragazzi e bambini “scomparsi”: quali sono i motivi (mancanza di mezzi informatici, mancanza di mediazione familiare) per intervenire subito (acquisto e consegna device, formazione, sostegno sociale) e diminuire un gap già presente prima della pandemia. Non è sufficiente fare scuola in presenza in estate per recuperare gli «apprendimenti». Occorre fare altro, altrimenti si correrebbe il rischio di fare scontare agli studenti e alle loro famiglie le responsabilità delle inadempienze delle regioni e degli esecutivi precedenti. Nei mesi scorsi opponendo – seppur nelle buone intenzioni – il diritto della salute a quello dell’istruzione, si è stravolta la scuola costituzionale, inventando quella «à la carte», lasciando così completamente a carico delle famiglie la responsabilità di mandare i loro figli a scuola. Compito immane per le famiglie disagiate. Per il momento ci accontentiamo che le istituzioni locali e nazionali organizzino adeguatamente il «rientro» a scuola.